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Palazzo Foglia – Gauro –

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Probabilmente costruito nel ‘600 e sicuramente ampliato nel ‘700 da Carlo, è stata sempre la residenza degli eredi legittimi. Il suo aspetto, oggi, è cambiato per diversi motivi (si pensi alla ristrutturazione successiva al sisma del 1980), ma non così radicalmente da non poterne apprezzare i suoi principali tratti architettonici.
 
Il palazzo rispetta la tipica struttura a “corte”, presenta le sue caratteristiche settecentesche nelle strutture esterne, in particolare nella facciata e nella corte con pozzo. Internamente, al piano nobile, si possono ammirare ampi saloni con soffitto a volta, loggia e balconate, al piano inferiore un tipico forno per il pane con vecchie travi a vista. Nelle cantine, poi, la presenza di alcune vecchie macine in pietra fa verosimilmente pensare all’esistenza in passato di un frantoio per olio.
 
Per consultare il documento della presa di possesso di Gauro nel 1753 vedi il sito montecorvinostoria.it alla voce borghi: Gauro
 

La Sagrestia di S. Pietro di Rovella

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La complessa opera decorativa venne realizzata all’indomani della costruzione del nuovo edificio della sagrestia, la cui fabbrica fu voluta da monsignor Menafra, nell’anno del suo insediamento in diocesi.
 
I lavori ebbero inizio, infatti, nel novembre del 1718 e furono ultimati entro il 1720. Nell’estate di quell’anno, inoltre moriva nel casale di S. Martino, il canonico Budetta, lasciando suoi esecutori testamentari monsignor Menafrra e l’arciprete Aiutoro. Grazie al suo lascito trovandosi ”qualche summa”, l’arciprete potette far “pittare” e “fare il friso” al nuovo ambiente della sagrestia, spendendo per “.. l’anili colori ed ogni altro che abbisognava per la pittura ..” 59 ducati e grana 57. Entro il 1720 furono, dunque, portati a termine anche i lavori di decorazione del nuovo ambiente.
 
Dalla relazione dei libri capitolari del 1724 si conferma, nei fatti, che l’opera era stata ultimata da pochi anni: “ .. Nova et pulcra sacristia ex summa ejusdem vivientis illustrissimus, et revendissimus Episcopus et R.R. Dignitariorum et canonicorum vigilantia constructa, desuper circumcirca depinta ..”.
Fu probabilmente Matteo Chiarelli, figlio del pittore Francesco, nato forse nel 1698 o nel 1699 e morto nel 1742, a realizzare tali decorazioni. Nei documenti il suo nome non viene direttamente citato e proposito di questo incarico, bensì in riferimento ad una tela, eseguita, nel 1720, per la parete interna della facciata della Collegiata, per conto di monsignor Menafra e per trenta carlini.
 
Dalle note si evince, inoltre, che: “.. in tempo che si pinse la Sacristina .. celebrò messe sei per il peso Capitolare ..” don Domenico Chiarelli, canonico della Cattedrale di San Matteo, il quale, probabilmente, era a Montecorvino in veste di accompagnatore del giovane fratello, dimorando in Salerno nella sua stessa casa.
 
Originario, forse, della costiera amalfitana, solimenesco, così come lo furono tanti giovani provinciali della sua generazione, il Chiarelli eseguì, con ogni probabilità, queste decorazioni come suo primo ed importante lavoro. Talune ingenuità compositive, del resto, lasciano intravedere una mano ancora inesperta, che, di fronte alla complessità dello spazio di una volta a carena, non sa ancora trovare adeguate soluzioni prospettiche.
 
Tali irrisolutezze saranno ben superate nelle opere della sua maturità, a partire da quelle documentate dalla fine degli anni Venti. Del resto, il confronto tra alcuni brani della volta montecorvinese e quelli realizzati per la chiesa di Santa Maria delle Grazie in Occiano, sicuramente autografi e congedati tredici anni dopo, non solo consente di attribuire, senza incertezze, al Chiarelli le decorazioni della sagrestia della Collegiata di S. Pietro, ma permette, al tempo stesso, di cogliere i più maturi esiti della pittura dell’artista.
 
Tranne che nelle proporzioni (più ridotte quelle del Santo di Occiano), le figure che ritraggono, nell’un caso e nell’altro, San Francesco de Paola, sono pressoché sovrapponibili, sia per l’impostazione grafica, sia per la tecnica di stesura del colore, sia nel modo in cui vengono lumeggiati i volti. L’unica e non trascurabile variabile consiste in un più misurato controllo dei mezzi espressivi, a vantaggio della successiva impresa occianese del 1733.
 
Estratto da schede di Carmine Tavarone, in B. D’Arminio – C. Tavarone, Fede e Arte. Espressioni artistiche e pietà religiosa a Montecorvino Rovella, Salerno novembre 2004.
 

L’antico casale Votraci

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posto sul pendio dei monti Picentini, in posizione dominante rispetto agli altri casali, si snoda con il suo abitato lungo una strada stretta ed irta formando un naturale semicerchio rispecchiando la antica fisionomia di quei centri abitati che si ergevano in luoghi che consentivano facile difesa in caso di incursione nemica.
 
Anticamente era un percorso di transumanza verso i monti che conducevano nei piani di Acerno e dell’Acellica, che favorì la nascita delle prime abitazioni intorno alla famiglia dominante Franchini. L’amenità dell’aria, la ricchezza e la bontà dell’acqua, la splendida veduta panoramica, non potranno non colpire l’attenzione del turista. Diverse sono le ipotesi intor¬no al significato del nome Votraci; la prima lo fa derivare dal greco «batracos» che vuol dire rana, ad indicare un luogo ricco di rane; la seconda dall’espressione antica napoletana -batracelli- che vuoi dire dirupo; la terza da una espressione derivata esclusivamente per ragioni di segnaletica, e cioè dal francesismo -Vote-ici- volta qua, per recarsi sul casale.
 
Personalmente propendo per la seconda ipotesi.
Le strade di accesso sono due: una traversa che dalla frazione Molenadi sale su con antiche scale di pietra ( che non ci sono piu’ ), Vicolo Provenza e Vicolo Gradoni, il primo nome in onore del più volte Sindaco Luigi Provenza di Votraci, (dal 20-2-1870 all’11-4-1879 – dal 19-6-1885 al 13-11-1889 – dal 7-8-1895 al 8-9-1898), il secondo nome proprio per i gradoni in pietra che salivano su a Votraci in precisa successione; la strada principale, invece, si innesta sulla statale 164 per Acerno a 100 metri sulla sinistra da Piazza Umberto lº. Sorpassando la parte nuova, dopo circa 300 metri, si raggiunge una fontana pubblica con lavatoio, la cui sorgente è posta poco al disopra di essa. Affianco, si accede nel cortile di un palazzo settecentesco, attualmente di proprietà delle famiglie Foglia e Benvenuto, nell’atrio del portone, sotto la volta è affrescato lo stemma della famiglia Budetta di S. Maria a testimonianza che una volta il fabbricato è appartenuto a questa famiglia, l’ultimo possessore fu Gennaro Budetta.
 
PIAZZA BELVEDERE offre una visione ormai coperta della antica e bella visuale. Un arco costruito in tempo relativamente recente ci introduce in PIAZZA MOLA, e la strada dei gradoni, più avanti sulla sinistra vi è il vicolo Masucci che porta al Palazzo della omonima famiglia. Da questa famiglia passò a D. Felice Rizzo e da questi al maresciallo Tatullo, per finire poi alle famiglie Vasso e Moscariello, attuali proprietari.
 
Più avanti un altro Palazzo datato 1832 che dalla famiglia Pagano passò agli attuali proprietari De Felice; oltre, sulla sinistra dopo aver osservato uno splendido ponticello di passaggio da un lato all’altro del vico, vi è un altro portone datato 1866 con le iniziali B.C. (Cappuccio Bonaventura).
 
Dopo pochi passi ancora raggiungiamo la piazza Mons. Franchini, cuore antico del casale, un palazzo superbo e maestoso, nonostante l’usura del tempo, si mostra ancora con tutto il suo orgoglio, splendidi porticati interni, scale che ricordano identiche costruzioni nel cuore della vecchia Napoli. Sotto gli archi esterni si narra che esistesse una cappella di famiglia dedicata a S. Gennaro. In questo luogo nacque Mons. MICHELANGELO FRANCHINI, nel 1792. Dal 1820 arciprete della Collegiata di S. Pietro. Dal 1832 Vescovo di Nicotera e Tropea su ordinazione del Papa Gregorio XVI. Morì in odore di santità il 24 maggio 1854. Tale famiglia fu insignita di nobiltà nel 1494 con Mariantonio, Francesco e Carlo.
 
Questa Piazza, poco larga ma notevolmente lunga, era il centro dello svolgimento delle feste in onore di S. Bernardino; da essa partivano le sfilate di carnevale alla volta del Capoluogo e, probabilmente, in questo luogo circa due secoli e mezzo fa, nacque «U RITTU DI FRA MICHELE»
 
votraci

Campanile di S. Bartolomeo del Torello

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Nel mese di aprile 1575 venne eretta la confraternita del SS.mo Rosario nella chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo del Torello. Il sodalizio aveva fra i suoi scopi la raccolta di offerte e donazioni per il mantenimento e le eventuali ristrutturazioni necessarie all’edificio parrocchiale.
La nuova chiesa di S. Bartolomeo, ricostruita presso l’attuale sito negli anni ’60 del Cinquecento, era priva di un campanile per cui negli anni ’40 del XVIII secolo i “Mastri e gli Officiali della Confraternita del Rosario” decisero, in accordo col parroco, di costruire un campanile sul lato dell’”Evangelio”.
Nel corso del 1748, il sacerdote d. Ludovico Savino, in qualità di cassiere della confraternita del Rosario del Torello, contattò mastro Nunziante Sorrentino per costruire il campanile della chiesa parrocchiale. Il detto mastro Nunziante, insieme ad altri muratori di Cava, presentò il disegno della nuova struttura campanaria a d. Ludovico accordandosi con lui e con gli altri ufficiali del sodalizio per la costruzione del nuovo edificio turrito.
Il 4 novembre, finalmente, dopo vari ed estenuanti ”patteggiamenti”, le parti stilarono un contratto notarile dove veniva minuziosamente annotato i tempi e i modi per la costruzione del detto campanile, la cifra e la fornitura del materiale necessario.
L’opera consisteva in una torre campanaria composta da quattro ordini da edificarsi in quattro anni, con verifica annuale da parte di “periti eletti” comunemente e con l’impegno da parte dei mastri di farlo bene e senza nessuna lesione, pena il pagamento di tutti i danni e le spese. La confraternita si impegnava a pagare il lavoro, il materiale e tutto il necessario al termine di ogni anno, versando, però, un cifra iniziale di ducati 12.
Il campanile composto da quattro ordini fu completato nel corso del 1753 e inaugurato con le relative campane negli anni successivi con grande soddisfazione e gioia del parroco, dei fedeli e della confraternita.
Per consultare il documento sulla costruzione del campanile vedi il sito www.montecorvinostoria.it  alla voce borghi: Torello
campanile chiesa san bartolomeo Torello
campanile chiesa san bartolomeo Torello

PALAZZO PROVENZA

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IL PALAZZO PROVENZA in Via Diaz di Montecorvino Rovella
Detto Palazzo , da dati certi, risulta che già nel 1600 era esistente ed apparteneva alla Famiglia Provenza.
Fu Domenico Provenza che nel 1850 iniziò una ristrutturazione della casa e la abbellì con uno stupendo portale in pietra, oltre che dotarlo di uno stemma di pura fantasia che, tuttavia, presentava molti elementi indicativi dell’origine di detta Famiglia.
Affacciarsi sulla via di collegamento tra la parte della pianura montecorvinese e il Capoluogo Rovella, era un elemento essenziale per accrescere l’importanza della famiglia. Detta Via, con l’inizio delle costruzioni sia sul lato destro che su quello sinistro, assunse molta importanza, prima si chiamò Via Clelia e dal 1920, Via Diaz.
Fu Luigi Provenza, nato nel Casale VOTRACI , due volte sindaco di Montecorvino Rovella tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 ,che fece accrescere l’importanza del fabbricato , fregiando il portone con ottimi affreschi che erano il risultato della sua cultura ( Al centro la Scala di Giacobbe, motto e stemma della famiglia Savoia, Ara Pacis, Tempio di Giunone, ecc…….oggi quasi illeggibili ).
In più, poiché amava viaggiare ed era innamorato di Venezia, fece costruire una loggiata di collegamento tra i due palazzi vicini facendo supporre una timida copia del “ Ponte dei Sospiri “ e per rafforzare questa idea fece dare il nome di “Vicolo Venezia “ al Vicolo sottostante che consentiva l’accesso dalla via in costruzione che poi si chiamerà Corso Umberto I, con la via antistante il portone di ingresso: casa natia di Fra Generoso Muro, fraticello di San Francesco

NUNZIO DI RIENZO

La Chiesa di S. Rocco di Rovella

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Nel 1656 il Viceregno venne funestato da una terribile pestilenza che provocò migliaia di morti e una grave crisi socio economica. Nelle nostre zone l’epidemia fu portata da cittadini napoletani fuggiti dalla capitale nel tentativo di evitare il morbo. A Montecorvino l’infezione, documentata a fine luglio, si diffuse rapidamente nei vari casali nel mese di agosto, protraendosi, con casi sporadici, per tutto l’anno.
 
Alle prime avvisaglie del contagio il clero e il popolo si affidarono alla protezione di S. Rocco dedicandogli una cappellina in legno costruita nei pressi della «Croce di Santo Pietro». Tra i primi devoti a S. Rocco troviamo Jo Nicola Scarparo, il quale il 18 agosto donò alla «nova Ecclesia sub titolo Santi Rocchi» un oliveto posto in località Donnico. Le manifestazioni di fede e ringraziamento proseguirono per tutto il 1656 e buona parte dell’anno successivo. Passato il periodo del contagio i “mastri e cassieri” Vito Antonio Sparano e D. Vito Acernese incontrarono delle difficoltà economiche per terminare la costruzione. Nel 1665, infatti, Mons. Glielmi ordinò al “mastro fabriciere” D. Bartolomeo Ceraso di completare l’edificio con le entrate provenienti dai suoi beni.
 
Mons. Menafra nel 1723 assegnò S. Rocco alla Congregazione del Santo Rosario per consentire ai confratelli «l’esercizi spirituali», con l’obbligo di ornare e fornire i “suppellettoli” all’altare, rifare il tetto e soddisfare il peso di sei messe che dovevano essere celebrate dall’Arciprete. Le deliberazioni del prelato furono rispettate per alcuni anni. Successivamente i contrasti sorti tra l’Arciprete e la Confraternita causarono l’abbandono e il deperimento del fabbricato. Ad evitare il peggio intervenne Mons. Lorenzi, che conciliò le parti mediante un atto stipulato nel 1751, con il quale si stabilì che la chiesa era di proprietà della Congregazione: quest’ultima aveva l’obbligo di ripararla, pagare le messe all’Arciprete e fare i quadri della Vergine del Rosario, di S. Domenico e S. Rocco. L’Arciprete veniva esonerato dalle spese della manutenzione, conservando il diritto di celebrare le messe di obbligo e della festività di S. Rocco, ricevendo in tale occasione mezza libbra di cera.
 
Grazie a questo accordo nell’arco di pochi anni la chiesa fu completamente restaurata e abbellita all’interno con sedili, i quadri voluti dal Vescovo e un nuovo altare, al quale fu concesso un privilegio da Papa Clemente XIII. S. Rocco, quindi, da semplice chiesa votiva acquisì una notevole rilevanza religiosa, divenendo prima oratorio della Congrega e poi sede del Capitolo di S. Pietro nell’ultimo quarto del XVIII secolo.
 
Estratto da A. D’Arminio-V. Cardine-L. Scarpiello, Chiese di Montecorvino e Gauro.
Istituzioni religiose e vita sociale nella Diocesi di Acerno, Montecorvino Rovella febbraio 2018, pp. 72-73.