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La chiesa della Madonna del Carmine – MARTORANO

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L’attuale edificio si compone di diverse cappelle intitolate rispettivamente a S. Maria di Loreto e S. Giuseppe, S. Maria del Carmelo e S. Maria dei Ceraso. Sul lato nord della struttura, in fondo a sinistra, vi è un affresco raffigurante la Madonna col Bambino, con offerta votiva, posta tra due Angeli. Nella parte inferiore del dipinto si riesce a leggere il nome della committente, Moretta Ceraso e l’anno di esecuzione, il 1405. La Cappella dedicata in origine a S. Maria di Loreto, al cui interno era posta l’edicola precedente, è stata fondata alla fine del XVIII secolo.
 
Nel 1821, d. Mariangela Ceraso dedica la cappella a S. Giuseppe, legando un fondo dotale per la celebrazione di una messa festiva.
La parte sottostante, del complesso, è intitolata alla Madonna del Carmelo. La chiesa fu edificata nel primo decennio del Cinquecento, dove sorgeva una bottega artigiana di proprietà della Mensa Vescovile di Acerno. Il fondatore apparteneva alla famiglia Glorioso, attestata nel casale in documenti di fine ‘400. L’epoca di fondazione e il patronato sono stati desunti dall’attento studio della genealogia dei Gloriosi. Infatti, intorno agli anni’30 del Cinquecento, il patronato era diviso tra i fratelli d. Teodoro, Donato Antonio, Annibale e un quarto, di cui non conosciamo il nome.
 
Nel 1560, i figli di Agostino Pico ricevettero dalla zia Giulia un “Jus Presentandi” nella cappella. La donazione consisteva in un autonomo benefico fondato all’interno della chiesa del Carmine, con un suo cappellano, vari beni e relativi oneri di messe. In seguito a questa donazione, nella cappella risultavano eretti due benefici, gestiti separatamente da due Cappellani.
 
I Pico, eredi di Giulia Pico e di buona parte del Benefico fonato dai Glorioso si arrogarono il diritto di nominare i due cappellani e la gestione della totalità dei beni. Sorti forti contrasti e liti con i Glorioso e tra gli stessi Pico, la chiesa fu espropriata dalla Mensa Vescovile di Acerno, che a partire dai primi decenni del ‘600 nominò un unico Cappellano, Grazie a questa unione il culto della Madonna del Carmelo prese nuovo vigore, durando per diversi secoli fino ai tutto il Novecento.
 
Nel 1802, Mons. Mancuso, per affetto e devozione verso la Madonna di Martorano e per esaudire i continui appelli dei vari rami dei Pico, riconosce e riconcesse loro il patronato con relativo “Jus presentandi”.
Sul finire del Settecento la famiglia Ceraso costruì una cappella adiacente a Santa Maria del Carmine, inglobando la vecchia edicola quattrocentesca. Qualche decennio dopo i Pico, riottenuto il Patronato su S. Maria del Carmine, decisero di ampliare la chiesetta, costruendo un’aula simile in dimensioni planimetriche a quella dei Ceraso.
 
In seguito, la famiglia Curci, erede dei Ceraso, comprò la Chiesa del Carmine, divenendo unica proprietaria dei due edifici. Per meglio usufruire lo spazio dello stabile e per offrire ai fedeli una chiesa più capiente, aprì un “varco arcato”, mettendo così in comunicazione di due stabili.
 
Alfredo D’Arminio – Vito Cardine – Lazzaro Scarpiello.
 
Affresco della Madonna di Loreto – Martorano
Nella cappella attualmente adiacente a quella votata alla Madonna del Carmine, e originariamente separate, si trova l’affresco che raffigura la Beata Vergine di Loreto, di notevole pregio storico artistico, non solo per essere tra le prime raffigurazioni della Vergine, ma anche per la raffinatezza della sua esecuzione. Purtroppo non conosciamo il nome dell’artista che lo realizzò, mentre sono noti sia il committente, Moretta Ceraso, sia l’anno di esecuzione, il 1315; sebbene il resto della scritta sia quasi cancellata del tutto.
Scarse sono le notizie storiche intorno alla cappella medesima.
 
Abbiamo un primo riferimento risultante da una visita pastorale dell’anno 1793, nella quale viene nominata “sacellum Santa Maria Lauretana, di patronato della famiglia Ceraso”. Inoltre, sappiamo, attraverso un documento del XIX secolo, che riporta i benefici della famiglia De Napoli, che nel 1821, gli stessi De Napoli, estinti nella famiglia Curci ed eredi dei Ceraso, erigono una cappellania a S. Giuseppe “col peso della messa festiva ingiunto sopra la Corte, fondo della fondatrice D. Mariangela Ceraso”.
 
Dunque la cappella viene votata da quell’anno anche a S. Giuseppe e, a conferma, vi sono due visite pastorali che lo ribadiscono, la prima datata 3 luglio 1836 che testualmente afferma: “visita in sacello detto S. Giuseppe e Santa Maria di Loreto sita a Martorano, di patronato di Gaspare Di Napoli; la seconda svolta nel 1851: “una cappella posta in vico Martorano della Beata Vergine di Loreto della famiglia Di Napoli dove vi è l’altare di S. Giuseppe”.
A cura di Corrado Curci.
 
Affresco di Martorano
In frazione Martorano, nella Chiesa di Santa Maria del Monte Carmelo, accanto all’altare, sulla parete di sinistra rispetto a chi entra, è ubicato un dipinto parietale raffigurante la Vergine col Bambino tra due angeli. E’ databile ai primi del Quattrocento, probabilmente al 1405, così come lasciava intravedere, fino a qualche anno fa, un’iscrizione posta ai suoi margini inferiori. Completamente ricoperto da una velinatura di protezione, realizzata a cura della Soprintendenza ai B.A.P.S.A.E di Salerno e Avellino, a pochi anni dal terremoto del 23 novembre 1980. Il dipinto fu eseguito su intonaco a secco, non prima della fine del XIV secolo e, in tutti i casi, in data anteriore all’edificazione della Chiesa, eretta intorno alla seconda metà del XVIII secolo.
 
Esso, probabilmente, faceva parte di una cappellina votiva che, edificata la chiesa, venne inglobata all’interno della nuova costruzione.
L’opera presenta, al centro, la monumentale figura della Vergine in posizione eretta e inserita in un’alta nicchia. Il capo leggermente reclinato verso il Bambino, i tratti espressivi dolcissimi, la figura si presenta quasi completamente ricoperta da un ampio velo, riccamente damascato, che le ricopre la sottostante veste, ricadente a lunghe pieghe. Quattro esilissime colonne, collocate a leggere distanza, definiscono lo spazio ai lati della nicchia. Negli intercolumni (ossia negli spazi definiti dalla distanza di ciascuna coppia di colonne) sono poste le due figure angeliche.
 
Pur ispirato da modelli culturali tardo-gotici, il pittore di Martorano manifesta, tuttavia, una concezione spaziale estremamente arcaica. Se, infatti, nella figura della Vergine riesce a delineare inflessioni di più moderna sensibilità compositiva, per le figure angeliche sceglie una rappresentazione antichizzante di tipo metrico. La raffigura, in effetti, di altezza pari alla metà di quella della figura della Vergine, sia per determinare gli effetti di una elementare prospettiva, sia per esprimere la loro distanza gerarchica e spirituale della Madre di Cristo. Il pittore di Martorano è, in definitiva, esecutore di un’opera devozionale di gusto attardato, nella quale si rintracciano taluni caratteri di modernità, enucleati, soprattutto, in alcuni passaggi descrittivi con i quali viene realizzata la figura della Vergine.
A cura di Carmine Tavarone.
 
I testi sono estratti da D’Arminio – L. Scarpiello -V. Cardine, Chiese di Montecorvino e Gauro. Istituzioni religiose e vita sociale nella Diocesi di Acerno, Montecorvino Rovella febbraio 2018.
 

NUMERI VINCENTI – LOTTERIA SS.Pietro e Paolo 2025

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1° premio
biglietto numero 2093

2° premio
biglietto numero 1669

3° premio
biglietto numero 0353

4° premio
biglietto numero 2070

5° premio
biglietto numero 2250

6° premio
biglietto numero 1514

L’edificio ottocentesco della Madonna della Pietà

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La cappella originaria, di epoca normanna, era denominata col titolo di Santa Maria della Rocca. Nel corso del Seicento troviamo le prime tracce del titolo della Pietà, nome che venne definitivamente assegnata negli anni ’50 del Settecento. Nel 1758, infatti, i Confratelli della Confraternita di S. Filippo Neri ottennero dal Capitolo di S. Pietro la Chiesa di Santa Maria della Rocca seu Pietà.
 
L’attuale edificio sacro, invece, è da ritenersi costruito dalla Confraternita e dal Magn. D. Lorenzo Pizzuti a partire dal 1827, quando fu stipulato l’atto di convenzione tra le parti. Il Pizzuti si impegnava ad innalzare le mura perimetrali e a voltare la copertura completandola con il tetto e apponendo la porta nel vano già predisposto, secondo il progetto voluto dalla Confraternita. Da questo si suppone che le fondazioni per le pareti e le spese per il progetto erano già state pagate dal sodalizio, il quale si impegnava a finirla internamente. Tra le condizioni dell’atto era stabilito che la vecchia chiesetta, posta all’interno del recinto murario, doveva essere demolita ad opera conclusa onde consentire la continuità e la funzionalità dell’oratorio.
 
Documento
“24 maggio 1827 in casale Rovella
Si costituiscono in Nostra presenza il Sign. D. Lorenzo Pizzuti del Fu Sabato. E il Sign. D. Michele Curci del fu Sign. Nicola, Dottore in Medicina e il Rev. D. Donatantonio Budetta, del fu D. Agostino, Sacerdote e Canonico, rappresentanti rispettivamente Priore della Confraternita di S. Filippo Neri, sotto la potestà della Vergine Addolorata, e Procuratore del Rev. Capitolo di S. Pietro.
Le parti hanno esposto che mosso il Sign. Pizzuti da attaccamento verso la Santa Religione, e da spirito di devozione ha risoluto, è vuole a di Lui spese compiere l’Oratorio della Madonna della Pietà, posto tra la i Monasteri dei Padri Cappuccini e Riformati di questo Stato di Montecorvino, principiato detto fabbricato da tempo remoto, e come detta Chiesa appartenga a detta Confraternita e Capitolo, i quali non hanno avuto mezzi per il passato e per il presente poter proseguire il Sacro Edificio, come stabilito dai loro Antecessori, per comodo di celebrazione, nonché per il bene spirituale dei fedeli, stipulando i detti articoli e convezioni.
Resta autorizzato detto Sign. D. Lorenzo nello spazio di anni sei di compiere di rustico l’incominciata Chiesa della Santissima Vergine Addolorata o sia Pietà a totale sue spese, senza cambiare o restringere il disegno, e l’attuale pianta, in proseguire l’innalzamento della fabbrica e coprirla a volta di lamia rada, ed ivi sopra con armaggio di legno e tetto, il tutto a regola d’arte, e quindi costruirvi la porta di legno per quanto è il vano, ed presentemente la sua grandezza, con corrispondenti ferramenti e serrature a due chiavi, da consegnarsi a detta Confraternita e Capitolo.
L’Antica Chiesetta nel recinto dell’attuale fabbricato debba essere demolita dopo costruita la nuova chiesa à spese della detta Congregazione cui spettano i materiali.
Deliberazione della Confraternita del 17 settembre 1826:
Che esso Sign. D. Lorenzo Pizzuti si obbliga di terminare a regola d’arte l’innalzamento delle mura del sudetto Oratorio e Sagrestia, giusto la pianta esistente, voltarvi la pianta e coprirla con armaggio e tetti, e similmente sistemarvi la porta di ingresso ferrarata secondo attualmente esiste, e così di solo rustico interno ed così rimanerlo.
Conclusione Capitolare del Capitolo di S. Pietro del 16 gennaio 1827:
Finalmente che l’attuale Chiesetta deve essere messa, senza compire la grande, quale compita si potrà fabbricarsi, e i materiali siano della Congregazione”.
A.S.S., Notaio G.A. Sorrentino, N.V. B. 3388
 

fonte: montecorvinostoria.it

 

chiesa della pierà

 
 
 

S. Martino nel Medioevo: S. Michele-Lu Caminu

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S. Martino nel Medioevo: S. Michele-Lu Caminu.
Lungo l’antica strada medievale che conduceva a Ferrari e Rovella, su di una piccola motta naturale, delimitata da due valloni, fu costruita, con molta probabilità, una piccola torre di controllo da parte di un milite dipendente dal Signore del feudo di Montecorvino.
Nel corso della prima metà del XII secolo, probabilmente, un bono homines, appartenete alla vecchia nobiltà longobarda, divenuto milite si insediò con la sua famiglia nel sito della vecchia torre normanna. Il luogo per la sua conformazione orografica ben si prestava alla costruzione di piccoli insediamenti fortificati, avendo nelle sue vicinanze il fiume Cornea, due valloni provenienti da Nuvola, l’antica strada medievale e una sorgente superficiale di acqua.
 
Tutte queste caratteristiche geografiche convinsero il nuovo milite a costruire nella parte sommitale un edificio fortificato, dotato di torre, mura, pozzo sorgentifero e cortile interno. L’accesso, probabilmente, era posto sul lato Est della via pubblica, attraverso un sentiero terrazzato e murato che consentiva il passaggio degli uomini, delle merci, degli animali domestici e dei buoi. Nella parte inferiore si sviluppava l’abitato servile, costituito dalle case dei villani, dei serventi, dai depositi agricoli e dalle stalle. Il tutto era predisposto su più livelli e circondato da mura in legno o in muratura. La casa signorile aveva, con molta probabilità, nei vani terranei un grosso forno, in quelli superiori uno o due impianti per accendere il fuoco e una grossa cappa fumaria addossata alle mura dell’edificio, Questa struttura per le sue dimensioni e per la sua unicità rappresentava per il proprietario e suoi villani un vanto e un orgoglio e per gli abitanti dei centri umanizzati vicini un punto di riferimento geografico. La presenza, quindi, di tale impianto, portò nel corso degli anni a identificare questo piccolo borgo signorile col nome di Lu Caminu, toponimo documentato nel secolo successivo (2) ma, quasi sicuramente, nato nella prima metà del XII secolo.
Dal latino Caminu = focolare. Impianto per accendere il fuoco all’interno di un edificio, addossato a un muro e costituito da un piano rialzato in pietra, sormontato da una cappa fumaria. Dal greco kàminos = forno fucina.
 
Negli anni ’50 e ’60 del secolo l’edificio apparteneva ad Ademario Giudice, milite di Montecorvino e proprietario di un piccolo feudo allodiale, tassato nel Catalogo dei Baroni per un solo villano. Il nostro era espressione della vecchia aristocrazia longobarda sopravvissuta alle espropriazioni e alla perdita del potere politico durante la prima fase della conquista normanna, il quale riesce ad entrare nell’élite locale come membro autorevole della nobiltà militare e come giudice di Montecorvino. Il possesso di un piccolo patrimonio personale, ereditato dal padre, le sue competenze giuridiche, e l’amicizia con l’arcivescovo Romualdo Guarna, gli consentirono di essere, fin dalla acquisizione del feudo di Montecorvino da parte della Chiesa Salernitana, un esponente di spicco della nuova burocrazia feudale. Nel luglio del 1168, insieme ai giudici Pietro e Guiscardo, nella chiesa di S. Martino conduce un’inchiesta sulle prestazioni e le corvée dovute dai vassalli e dagli homines militum di Montecorvino al nuovo signore feudale. Sempre nel stesso anno, per conto di Romualdo Guarna si reca con la medesima mansione nella terre di Eboli per l’inquisitio sulle prestazioni feudali dovute alla Chiesa Salernitana dagli abitanti e dai proprietari di Campolongo.
 
Questa proficua attività di giudice nei feudi della Chiesa Salernitana, le conoscenze acquisite e le amicizie instaurate con gli uomini di Montecorvino ed Olevano nel corso degli anni gli fruttarono potere, profitto economico e ascesa sociale all’interno della società montecorvinese, consentendogli di accumulare un discreto patrimonio personale e di stringere rapporti e legami famigliari con il milite Goffredo De Corsellis. La lunga permanenza nell’ufficio ad Olevano lo portarono, probabilmente, più volte a frequentare il vicino santuario di S. Michele, influenzando profondamente la sua spiritualità e la sua fede verso il Signore e l’Arcangelo Michele. Per ringraziare il Santo per averlo aiutato nei suoi lunghi anni nella vita professionale e famigliare, decise, con molta probabilità nell’ultimo quarto del secolo, di fondare una cappella privata dedicata a S. Michele. Costruì vicino alla sua casa un piccolo edificio religioso, dotato di altare, sepolture e di beni necessari al funzionamento della chiesa. Il privilegio di erigere la cappella vicino alla propria abitazione era dovuta all’eminente posizione sociale da lui occupata e all’amicizia con le autorità ecclesiastiche locali. La motivazione del giudice sulla fondazione vanno ricercate sia alla devozione a S. Michele sia alla volontà di assegnare un luogo fisico di unità e di appartenenza per se e i suoi discendenti.
 
Matteo, figlio ed erede di Ademario, proseguì le funzioni paterne, continuando ad essere un fedele seguace della Chiesa Salernitana. Il giovane rampollo, obbedendo al vecchio padre, si sposò con d. Alda, figlia di Goffredo de Corsellis, ricevendo in dote diversi beni. Il matrimonio fu senza dubbio il sugello politico della avvenuta pace e concordia fra le due famiglie, appartenenti a due schieramenti contrapposti: i vecchi militi, di cui Goffredo era uno dei capi, e gli ufficiali e i boni Homines, partigiani e fedeli fautori dell’Arcivescovo Feudatario. Membro autorevole della nuova élite montecorvinese, faceva parte senza dubbio di quella schiera della piccola nobiltà salernitana, che per autotutelarsi dalla nuova nobiltà sveva aveva costituito una sorte di consorteria, capeggiata e guidata dagli Arcivescovi di Salerno. Nel mese di agosto 1228 per esaudire la volontà della figlia Costanza di farsi suora dona al monastero di S. Giorgio un pezzo di terra con olive nel luogo S. Martino, propriamente dove si dice Casa Marzana. L’entrata di Costanza nel prestigioso monastero di S. Giorgio, prerogativa e privilegio riservato alle famiglie nobili salernitane, dimostra senza dubbio l’appartenenza di Matteo e di sua moglie all’ élite salernitana e al ruolo di primo piano svolta dalla famiglia Giudice nella società montecorvinese.
 
Gli eredi di Ademario continuarono ad essere i patroni della cappella di famiglia dedicata a S. Michele, mantenendo in buono stato l’edificio sacro e nominando pacificamente i rettori della chiesa. Negli anni ’60 del secolo il beneficiato era il presbitero Mantenna. Alla sua morte, a causa della vacanza della sede episcopale di Acerno, la cappella rimase senza il rettore. Alla venuta del nuovo vescovo Luca, i compatroni “Filippo Giudice, figlio del fu Ademario Giudice, Andrea, nipote di detto giudice e figlio del fu Matteo giudice e notaio, e Matteo, similmente nipote del detto giudice Filippo e figlio del fu Ademari, dichiarano che sono patroni della ecclesia di S. Michele, costrutta in loco qui detto lu Caminu, pertinenzia di Montecorbino, diocesi di Acerno. Ora avanti a Luca, Vescovo di Acerno, presentano Giovanni Della Porta, figlio del fu Tomaso, come rettore di detta chiesa, con l’obbligo di curarla e tenerla bene, celebrando le messe di suffragio e la festività del Santo”.
La Guerra del Vespro e la successiva crisi demografica trecentesca, portò a una maggiore riconsiderazione del sito e alla nascita, con molta probabilità, di un altro piccolo nucleo umanizzato. Costruito da un piccolo proprietario terriero, legato da vincoli di vassallaggio all’Arcivescovo Feudatario, era costituito da una caseggiato a corte chiusa, con porta sotto arco, mura di recinzione e da un pozzo sorgentifero.
Nei primi decenni del ‘400 assistiamo alla emigrazione graduale dei vari rami dei Giudicemattei verso Pugliano e Rovella, la perdita del patronato della chiesa di S. Michele e uno spostamento dell’edificio sacro verso l’attuale sito con l’apertura di una nuova “strettola”.
 
Nel corso della prima metà del secolo, il Vescovo di Acerno, sollecitato da una crescita demografica nella zona di S. Martino-Nuvola, decise di istituire una nuova parrocchia nella chiesa di S. Michele. La scelta fu dovuta, probabilmente, anche all’esigenza della curia vescovile di contrastare la crescente influenza della vicina parrocchia di S. Martino. Nel 1452 l’arcivescovo di Salerno, in visita nella suffraganea di Acerno, si reca nella chiesa di Michele, retta dal cappellano d. Pietro de Anello di Gauro. L’edificio, crollato probabilmente a causa di un terremoto, si ritrova in parte ricostruito, per cui il prelato ordina che venissero ripristinate le parti ancora dirute. La chiesa, nonostante le pessime condizioni strutturali, custodiva decentemente l’eucarestia e il fonte battesimale ed era fornita delle necessarie suppellettili alla celebrazione della messa.
Come abbiamo detto prima, la crescita demografica favorì la nascita due nuovi piccoli caseggiati sulle due vie contigue alla chiesa e l’arrivo di nuove famiglie. Le vecchie case dei Giudicemattei furono comprate da alcuni membri degli Oliviero e Maurello, i quali ricostruirono e ampliarono il costruito esistente, rendendole più confortevole e idonee alle nuove esigenze famigliari.
 
Gli Olivieri, famiglia di origine vassallatica, si trasferirono dalla vicina parrocchia di S. Eustachio, intorno alla metà del secolo, abitando nelle antiche case dei Giudicemattei e nei nuovi edifici costruiti nella seconda metà del ‘400. Cresciuti di numero e ricchezza, ottennero con Eustachio nel 1494 il titolo di baroni di Montecorvino.
Le abitazioni e i beni in possesso dei Maurello, invece, furono vendute da Carlone alla famiglia napoletana dei Rodoero. Nel maggio 1466, il Maurello si reca nello studio del notaio de Pilellis di Napoli, dichiarando che possiede “una casa palaziata, con giardino, arbusto, ed oliveto, sita nella Villa di S. Martino dello Stato di Montecorvino, confinante con la via pubblica, il vallone ed altri confini. Ora per sue necessità vende detti beni ai Signori Ludovico, Giacomo e Gio Lionardo, padre e figli di Napoli, per lo convenuto prezzo di trenta oncie d’oro”. Come si nota dall’istrumento di vendita il bene venduto era una semplice casa “palaziata” con orto e oliveto contiguo e non una villa, come erroneamente riportato dal Giustiniani nel suo Dizionario sul Regno di Napoli. Il termine villa, invece, si riferisce al villaggio di S. Martino e indica chiaramente che in questo periodo il nostro piccolo borgo era parte integrante dell’intero casale di S. Martino.
 
Ludovico Rodoero, figlio di d. Enrico e d. Lombardella Simia, nobile napoletano del sedile Montagna, discendeva da un Ludovico, cavaliere angioino venuto nel Regno di Napoli con la conquista del Regno da parte di Carlo I D’Angiò. Nel 1430 si sposò con Betta Feramonica, dama del seggio di Nido, da cui ebbe Giacomo, Gio Leonardo e Faustina. Negli anni ’60 abitava nel quartiere S. Arcangelo del seggio di Montagna e possedeva una “certa domo in Platea Arcu, giusto ecclesia Santi Paoli, consistente in un palatio cu cortileo, quattro camere superiore, sala e vani terranei sulla strada pubblica”. Benvoluto da re Ferrante I, ottenne nel luglio 1463 il titolo di Maestro Razionale della Gran Corte della Regia Zecca per lo sedile di Montagna. Alcuni anni dopo gli fu “affidata una indagine su mandato del Re per indagare e appurare con documenti e scritture autentici, nonché da testimoni degni di fede, se siamo stati informati che alcuni uomini dell’Atto di Rovella [segue elenco] e dell’altro Atto di Pugliano avessero vissuto da tempo immemorabile [da lungo tempo] alla maniera dei nobili.
 
Probabilmente per svolgere diligentemente tale incarico decise di comprare il palazzo di S. Martino, stabilendosi in esso per alcuni mesi dell’anno, indagando per conto del Re Ferrante I sulla nobiltà e la consistenza economica di alcune famiglie del luogo. Nel 1471, “per alcune gravi inimicizie, che contrasse con altri Nobili e Valletti della Città di Napoli, essendo accaduti alcuni disordini, risultò insieme ai figli Gio Leonardo e Giacomo inquisito di omicidio, quindi procedendo contro di essi la G.C. della Vicaria stimò sospendere i privilegi che godeva per essere Maestro Razionale e di procedere contro di essi. Il Nostro fece ricorso al Re che con lettera del luglio 1471 confermo tale causa, ordinando che in via provvisoria i Rodoero fossero allontanati da Napoli. E all’occasione che il Nostro aveva acquistato nel 1466 la detta casa palaziata con giardino nella Villa (Villaggio) di S. Martino dello Stato di Montecorvino, ivi trasferì la sua dimora insieme a Gio Leonardo, suo figlio, protestando contro tale atto con istrumento pubblico del notaio Martino Romaniello di Napoli nel febbraio 1472”. Da quanto riportato da Agostino Ariani, il Nostro visse sino alla morte a Montecorvino, insieme alla sua famiglia, costretto, come si è visto dall’ordine reale, a non ritornare a Napoli in nessun caso e per nessun motivo onde evitare ulteriori episodi di liti o di disordini fra le vecchie fazioni.
 
Gio Leonardo, nato negli anni ’30 del secolo da Ludovico e Betta Feramonica, fu nobile napoletano del seggio di Montagna e ricoprì diversi incarichi politici nella città di Napoli. Nel 1463 fu eletto “Deputato della Città di Napoli per lo Seggio di Montagna quando chiese al Re il pagamento del debito di duc. 500, quale residuo dei duc. 1.000 promessi dal Sovrano per la riparazione delle mura della città”. Negli anni ’50 o ‘60 del secolo si sposò con la nobildonna Laudonia Denza da cui ebbe Giacobetto ed Enrico. Abitò fino al 1471 sempre a Napoli insieme alla moglie e i figli per poi trasferirsi definitivamente a Montecorvino, dove suo malgrado fu costretto a vivere fino alla sua morte. Dalla documentazione riportata da Agostino Ariani lo ritroviamo sempre presente con il padre e il fratello ne gli atti famigliari e nella triste vicenda dei tumulti dei del 1471, quando, secondo il mio parere, fu fra i principali facinorosi e autore, forse, dell’omicidio di uno dei suoi avversari. Nel corso degli anni ‘70 o ’80 del secolo, fondò e costruì insieme ai figli una cappella gentilizia all’interno della Parrocchiale di S. Michele, dotandola di beni, altare e sepoltura famigliare.
Nel secondo quarto del ‘400, nel nostro borgo o in altri nuclei umanizzati di S. Martino viveva un certo Barnaba Maurello, famoso e rinomato maestro d’arte, ricordato con grande enfasi dall’Arcivescovo Pietro Guglielmo de Rocha nel 1476. L’esercizio di tale attività artigianale era una prerogativa di alcune famiglie, che tramandandosi i segreti e i saperi manuali di padre in figlio, ne custodivano gelosamente l’arte. Nel feudo di Montecorvino, questo tipo di attività era regolamentata e permessa di volta in volta dalla Chiesa Maggiore di Salerno, la quale per evitare che persone senza il suo permesso esercitassero tale attività ordinava ai suoi ufficiali di controllare e vigilare minuziosamente sull’intero territorio feudale. Nel novembre del 1476, il predetto Arcivescovo Rocha, per riconoscenza che la Chiesa aveva avuto per il fu Barnaba, concede al nipote Bernardino Maurello, figlio del fu Agari “per essere sempre stato Maestro d’Arte il privilegio e la concessione di poter esercitare tale magistratura. Ordina ai suoi Ufficiali, al Capitano e al Baiulo di Montecorvino di rispettare il suo volere, permettendo al detto Bernardino di poter esercitare senza nessun impedimento l’attività di Maestro d’Arte”.
 
La famiglia appare già divisa in più rami e presente sia nel nostro piccolo borgo sia nell’abitato della Croce. A S. Michele, probabilmente, abitavano un Angelillo, conduttore di un “arbosto” a Battipaglia nel 1437, Masio, testimone in un atto del 1465, e Carlone, proprietario di parte del caseggiato dei Giudicemattei. La condizione economica come si evince era variegata a seconda dei vari personaggi presi in considerazione. Nonostante questa diversità sociale, un suo esponente, benestante e ben inserito nel tessuto sociale della Parrocchia, di cui ignoriamo il nome, fondò a fine secolo una cappella gentilizia dedicata a Maria Maddalena nel primo luogo della chiesa di S. Michele. La posizione della cappella, posta subito vicino all’altare maggiore è il segno che questo personaggio aveva un patrimonio personale e una disponibilità economica tale da consentirgli sia di godere di un buon tenore di vita sia di fondare una cappella famigliare. Questo edificio privato, costituito da un altare e una sepoltura, era fornito di beni dotali e rappresentava senza dubbio un luogo privilegiato di unità e appartenenza per se e i suoi discendenti.
 
Per consultare l’intero testo vedi il sito www.montecorvinostoria.it alla voce Borghi: S. Martino