La complessa opera decorativa venne realizzata all’indomani della costruzione del nuovo edificio della sagrestia, la cui fabbrica fu voluta da monsignor Menafra, nell’anno del suo insediamento in diocesi.
 
I lavori ebbero inizio, infatti, nel novembre del 1718 e furono ultimati entro il 1720. Nell’estate di quell’anno, inoltre moriva nel casale di S. Martino, il canonico Budetta, lasciando suoi esecutori testamentari monsignor Menafrra e l’arciprete Aiutoro. Grazie al suo lascito trovandosi ”qualche summa”, l’arciprete potette far “pittare” e “fare il friso” al nuovo ambiente della sagrestia, spendendo per “.. l’anili colori ed ogni altro che abbisognava per la pittura ..” 59 ducati e grana 57. Entro il 1720 furono, dunque, portati a termine anche i lavori di decorazione del nuovo ambiente.
 
Dalla relazione dei libri capitolari del 1724 si conferma, nei fatti, che l’opera era stata ultimata da pochi anni: “ .. Nova et pulcra sacristia ex summa ejusdem vivientis illustrissimus, et revendissimus Episcopus et R.R. Dignitariorum et canonicorum vigilantia constructa, desuper circumcirca depinta ..”.
Fu probabilmente Matteo Chiarelli, figlio del pittore Francesco, nato forse nel 1698 o nel 1699 e morto nel 1742, a realizzare tali decorazioni. Nei documenti il suo nome non viene direttamente citato e proposito di questo incarico, bensì in riferimento ad una tela, eseguita, nel 1720, per la parete interna della facciata della Collegiata, per conto di monsignor Menafra e per trenta carlini.
 
Dalle note si evince, inoltre, che: “.. in tempo che si pinse la Sacristina .. celebrò messe sei per il peso Capitolare ..” don Domenico Chiarelli, canonico della Cattedrale di San Matteo, il quale, probabilmente, era a Montecorvino in veste di accompagnatore del giovane fratello, dimorando in Salerno nella sua stessa casa.
 
Originario, forse, della costiera amalfitana, solimenesco, così come lo furono tanti giovani provinciali della sua generazione, il Chiarelli eseguì, con ogni probabilità, queste decorazioni come suo primo ed importante lavoro. Talune ingenuità compositive, del resto, lasciano intravedere una mano ancora inesperta, che, di fronte alla complessità dello spazio di una volta a carena, non sa ancora trovare adeguate soluzioni prospettiche.
 
Tali irrisolutezze saranno ben superate nelle opere della sua maturità, a partire da quelle documentate dalla fine degli anni Venti. Del resto, il confronto tra alcuni brani della volta montecorvinese e quelli realizzati per la chiesa di Santa Maria delle Grazie in Occiano, sicuramente autografi e congedati tredici anni dopo, non solo consente di attribuire, senza incertezze, al Chiarelli le decorazioni della sagrestia della Collegiata di S. Pietro, ma permette, al tempo stesso, di cogliere i più maturi esiti della pittura dell’artista.
 
Tranne che nelle proporzioni (più ridotte quelle del Santo di Occiano), le figure che ritraggono, nell’un caso e nell’altro, San Francesco de Paola, sono pressoché sovrapponibili, sia per l’impostazione grafica, sia per la tecnica di stesura del colore, sia nel modo in cui vengono lumeggiati i volti. L’unica e non trascurabile variabile consiste in un più misurato controllo dei mezzi espressivi, a vantaggio della successiva impresa occianese del 1733.
 
Estratto da schede di Carmine Tavarone, in B. D’Arminio – C. Tavarone, Fede e Arte. Espressioni artistiche e pietà religiosa a Montecorvino Rovella, Salerno novembre 2004.